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Ali Foreman 3Dov’era il loro dio, in quel momento?
Ognuno dei due avrebbe dato una risposta diversa.

Per Foreman non c’era nessun dio. C’erano due cinture, mondiali. C’era la voglia di integrarsi. Di sventolar bandierine alle Olimpiadi di Città del Messico, mentre Tommie Smith e John Carlospa-2373497_tommie_smith mostravan pugni al cielo di nero guantati. ‘Zio Tom’ e le Pantere Nere: Foreman era il piatto nazionale negro servito in prima serata. Soldi, donne, belle macchine. E, mi raccomando, “God bless America”: e allora faceva finta di allenarsi a ritmo di gospel, “Ma non ho mai letto la Bibbia prima del 1977” confesserà. Falsa fedeltà.
Per Ali c’era la Nation Of Islam e un Allah fatto ad hoc. Da Cassius Clay a Muhammad Ali. La salvezza e la speranza facile, per lui che le scelte difficili le aveva fatte. “Loro non mi hanno mai chiamato ‘negro’… ”. Obiezione di coscienza vecchia scuola: non si fa male ai vietcong. Non è una questione razziale. E pazienza se gli “scienziati” – neri – ali-foreman1della sua religione prevedevano la sopravvivenza della razza – nera – solo per 25mila anni. Fede – nera – falsata.

E dove è dio il adesso?
Ora che lo sconfitto è pieno di milioni fatti con le griglie e predica gospel battisti “Oh happy day/when Jesus washed”, ora persuaso da una visione avuta dopo la sconfitta contro Jimmy Young quattro anni dopo Kinshasa.
Ora che il vincitore, abbandonato dalla sua stessa chiesa, è devastato dal Parkinson, ombra del Re che è stato?
Dov’è il vostro dio, ora?

Ali_Foreman_FrazierPer farsi forza, può anche esserci un dio: per quelli che gli attribuiscono colpe, per quelli che gli raccomandano l’anima.
Ma non c’è nessun dio nel pugilato. Se ci fosse, alla fin fine, nessuno salirebbe volontariamente sul ring: conta troppo credere in se stessi.
Sul ring ci sei tu.
E c’è il tuo avversario.
E un arbitro. Che è troppo pietoso per essere un vero dio.

Pubblicato su La Voce di Romagna

“Mimmo, bumaye”.
Mimmo, uccidilo. Che sia Luca Mancini, che pare abbia risposto alle sue urla di rabbia francofone con un meno francese gesto dell’ombrello. Che sia Maurizio Marin, che lo ha concesso in prestito con diritto di riscatto al Vicenza, agevolando una doppietta che Malonga non realizzava dal ’75. Che sia Gabriele Valentini, che non ho la minima idea di cosa si stia occupando in società in questo momento ma sono sicuro che in serie B il concetto di “dirigente dell’area sportiva” sia denso di significato tale che servono menti elette anche solo per arguirne la portata. Che sia lo stesso Malonga, quello indolente, che non corre in allenamento, che ha dinamite nei piedi ma sembra un invertebrato quando fa finta di muoversi. Quello che, si spera per loro, i vicentini non conosceranno mai, ma che qui a Cesena ha fatto sempre dannare.
Sia chi sia, Mimmo, uccidilo.
Come Ali ha ucciso Foreman, come Mancini ha ucciso Minotti, ieri Mimmo ha ucciso il Cesena. Che già non è che fosse poi molto in forma.

Di nuovo 4-4-2 per Junior. O 3-5-2. O 4-3-3. Dipende chi è che guarda la partita. Ma, ehi, tranquilli: non è che cambi molto. La realtà, oltre l’universo del pressapochismo tattico, è che si soffre soprattutto a centrocampo, dove solitamente trae forza la manovra del Cesena, con i 5 in linea del Vicenza che fanno e disfano.
Gessa è sacrificato spesso indietro a fare il terzino d’appoggio per l’arrembante Tonucci, al debutto, nonostante si pensasse a spendere la pedina Bamonte alla vigilia, con una difesa che anche se viene spacciata per linea a 3 è in realtà costantemente a 5. Tabanelli è quindi spesso attivo in fase di proposizione, mentre Iori deve costruire, e da quelle parti è roba per Spirit cavalli selvaggi, ma il Vicenza è compiacente e bussa raramente, preferendo penetrare dolcemente la verginità della fascia sinistra bianconera, con Favalli ancora troppo timido per essere proposto in una situazione in cui deve guardarsi sia da Mustacchio che da Malonga, pronto ad incunearsi tra l’ex compagno di squadra e Caldirola, con il completo disinteresse di D’Alessandro. Può anche essere il male minore l’esterno sinistro, ma va innescato prima della trequarti, altrimenti non è in grado di scrollarsi di dosso i raddoppi, che questa sera ci sono e si sentono, anche se con una settimana di ritardo stando alle visioni di Campedelli del dopo-Sassuolo. Purtroppo dipende tutto dal lavoro di Iori, missionario nel deserto quando Minesso e Di Matteo salgono in fase difensiva dietro Malonga, tagliando le gambe alle ripartenze bianconere con Tabanelli impossibilitato ad appoggiare. E se bisogna giocare per lui, in questo momento l’unico in grado di far male, allora si giochi costantemente per lui.

Di nuovo tanti, tanti limiti con i centrali difensivi. Nei due gol è palese la poca intesa tra Ravaglia e il duo Caldirola-Brandao: il portiere forlivese continua poi a non essere signore dell’area piccola, come dimostra il gol di Misuraca. E prima o poi qualcuno dovrà iniziare a parlare anche di panchina. L’inserimento di Pinardi, con una linea offensiva a quattro per spostare il baricentro, cambia l’inerzia della partita: arriva il raddoppio e sembrerebbe finita, ma D’Alessandro conferma di essere come il nemico degli X-Men, il Fenomeno: nessuno può fermarlo, palla al piede, prima della tre quarti.
Con l’espulsione di Succi si passa al 4-3-1-1, specialità di Junior al Bellaria quando rimaneva in inferiorità, portando comunque a casa qualche punticino: D’Alessandro passa dietro a Graffiedi e Iori è costretto a fare come la Curva, a macinare chilometri, per tamponare le fuoriuscite dalle parti del pupo Favalli, che però cresce, proponendosi pure. Il Cesena riesce portare pure la partita su certi binari potenzialmente produttivi, ma Breda la capisce e blinda il risultato con l’ingresso di Giani: poi, la caratura della manovra e un ex ex-giocatore fanno la differenza.

Qualcosa di buono si vede: Caldirola inizia ad alzare la voce in difesa, spiegando a Brandao come si debbano seguire le diagonali offensive, e per il capitano dell’U21 è un segno di buona volontà; Gessa e Iori sono già in ritmo campionato; se Graffiedi si porta via l’uomo il giochino, elementare e semplice, funziona… ma i limiti tecnici sono insormontabili a meno che qualcosa non cambi. Ne faccia le spese Tabanelli, lasciando il posto al cagnaccio nero Parfait, e pazienza l’indolenza supposta di quest’ultimo: già una volta il Cesena si è giocato un colored perché giudicato indolente, e una doppietta al Menti ha fatto più male di una semplice impresssione di settembre. E si rimetta al più presto Comotto in terzina destrorsa, catechizzando dall’altra parte Favalli che ha dei numeri, e parecchi, ma ha comunque perso la faccia in quel vicentino. E, infine, davanti si ammetta che Graffiedi non è uomo da 90′, ma da 65′ una volta e 25′ l’altra, che con i primi freddi inizia a soffrire di noie muscolari con tempi di recupero storicamente dilatati, mentre Succi è un giocatore che non ha ancora recuperato perfettamente dall’infortunio, né fisicamente né mentalmente, ripensando alle dichiarazioni durante la settimana dove suggeriva Junior di cambiare modulo: se pensasse a non appoggiare gomiti in faccia come un attaccante dei giovanissimi provinciali nel derby Sarsinate-Due Emme già sarebbe un passo avanti. Se LolLapadoola ha il ginocchio sifulo, si investa sull’AttanTurk Turchetta. Seriamente.

Ma, per ora, la differenza la fa lui, Mimmo, che nuovamente lotta con il Cesena. Contro il Cesena. Che nuovamente lotta, via, una piacevole novità per chi ama il calcio.
“Mimmo, bumaye”. Mimmo, uccidilo.
Anche perché se la difesa maggiore del Cesena è il vaffanculo di Mancini, continua a buttar male.

La Voce di Romagna, 02/09/2012 (integrazione)

Dietro la vittoria di Ali contro Foreman a Kinshasa.
Dietro la sconfitta mentale che Leonard inflisse a Duran il giorno del “No mas, no mas”.
Dietro a sedici campioni del mondo, silenzioso, discreto, equilibrato, c’era lui, Angelo Dundee.
C’era e non c’è più. Ma ci sarà sempre.

Angelo nasce novant’anni, figlio di Philly tanto quanto lo è della Calabria, perché da lì veniva la famiglia Mirena, emigrata poi negli Stati Uniti. Ruba il nome a Joe Dundee, un pugile italo-americano di Baltimora degli anni ’20, ma non è un furto: il welter nasce Samuel Lazzaro a Roma e cambia nome solo per darsi un tono. Non è un furto, è solo un segno del destino. Non ha mai rubato niente, Angelo Dundee. Fa servizio militare in marina, poi insieme al fratello Chris mette su una società di management pugilistico e si stabilisce a Miami, alla 5th Street Gym. A Luisville conosce Cassius Marcellus Clay, che a 15 anni ha già vinto il Golden Glove. Il futuro campione lo schifa, ma Angelo riesce a prenderlo per il verso giusto: supera la concorrenza di Archie Moore e ‘Sugar’ Ray Robinson e diventa il mentore di Clay.

E’ forse l’unico bianco a difenderlo quando decide di cambiare nome. Ali, musulmano. Bundini Brown, ebreo riformato. Angelo, mediamente cristiano: unico dio in comune, il pugilato. Questi tre fanno la storia della boxe in un respiro che dura vent’anni, fino alle lacrime di Angelo, all’angolo di Ali, quando la fiamma della battaglia sul ring si spegne contro Larry Holmes e inizia a bruciare quella della guerra al Parkinson. E poi Napoles, Ellis, Basilio e pure Ray Leonard. E Foreman, abbattuto nella Giungla all’apice della carriera e innalzato a 45 anni sul tetto del mondo.

Trionfi su trionfi per un piccolo italo-americano che, angelo per davvero in un mondo di predatori, è riuscito a fare solo del bene al movimento. Lo ha battuto un attacco cardiaco. Un buon prezzo da pagare per una vita incredibile.

Angelo Dundee (1921-2012)

La Voce di Romagna, 03/02/2012